Occupazione femminile, la più colpita

Tra i tanti problemi sociali, acuiti dall’emergenza scatenata dalla pandemia, emerge il fortissimo calo dell’occupazione femminile. Va però riconosciuto che si tratta di un fenomeno innescato già prima dello scoppio della pandemia. Viviamo, infatti, in una società in cui sulle donne ricade ancora la maggior parte del lavoro di cura della casa e della famiglia con conseguente necessità di diminuzione delle ore lavorative. Inoltre, anche a parità di ore di lavoro con i colleghi maschi, le donne spesso percepiscono un salario minore.

L’occupazione femminile nel periodo della pandemia

Il mese di dicembre 2020 è quello che ha segnato con più evidenza il calo di posti di lavoro ricoperti dalle donne. I dati Istat pubblicati l’1 febbraio che prendono come riferimento il periodo di dicembre ci dicono questo: «La diminuzione dell’occupazione (-0,4% rispetto a novembre, pari a -101mila unità) coinvolge le donne, i lavoratori sia dipendenti sia autonomi e caratterizza tutte le classi d’età, con l’unica eccezione degli ultracinquantenni che mostrano una crescita; sostanzialmente stabile la componente maschile. Nel complesso il tasso di occupazione scende al 58,0% (-0,2 punti percentuali)». Si tratta di informazioni allarmanti anche per i giovani che devono fronteggiare un presente complesso e ignoto e la prospettiva di un futuro dai tratti non rosei.

Perché le donne subiscono maggiormente il calo dell’occupazione?

Il lavoro non retribuito sembra non esistere

Pensiamo alla quantità di lavoro non retribuito che ancora oggi le donne sono costrette a sobbarcarsi in quasi completa solitudine. Pensiamo anche a quanto tutto questo lavoro non retribuito consenta di provvedere a una serie di incombenze che non potrebbero essere espletate in sua mancanza senza adeguate misure atte a compensarlo. Nel libro che potremmo definire rivelatorio di Caroline Criado Perez, Invisibili,leggiamo: «La mancata misurazione dei servizi domestici non retribuiti è forse la madre di tutti i gender data gap. Il lavoro di cura non pagato corrisponde, secondo alcune stime, al cinquanta per cento del Pil dei Paesi ricchi; nei Pesi a basso reddito la quota sale fino all’ottanta per cento». Insomma è il concetto stesso di economia ad avere delle deformazioni e un orientamento prettamente maschile. Se riflettiamo sul fatto che le molte ore che le donne da sole dedicano alla casa, ai figli, ai parenti più anziani hanno tolto loro tempo per la ricerca, lo studio e i momenti per sé stesse cominceremo a considerare diversamente la situazione. Infatti, all’interno del testo di Caroline Criado Perez leggiamo ancora: «Secondo Diane Coyle “è molto difficile credere che la decisione originale di escludere il lavoro domestico dal computo del Pil non sia stata influenzata dagli stereotipi di genere degli anni Quaranta e Cinquanta».

Che effetti ha sulle donne l’enorme mole di lavoro non retribuito sulle loro spalle?

È inutile girarci intorno, per poter incrementare l’occupazione femminile andrebbe ripensata la società. In particolare si dovrebbe puntare su maggiori investimenti nei servizi di istruzione prescolare e su un abbattimento dei costi nei servizi di assistenza all’infanzia, ma soprattutto dovrebbe maturare la mentalità che la quantità di lavoro deve essere equamente divisa. Ancora Criado Perez scrive: «Oltre a incrementare l’occupazione femminile (e di conseguenza il Pil), un investimento nelle infrastrutture avrebbe anche effetti positivi in termini di riduzione del carico di lavoro femminile non retribuito». Inoltre, non è pensabile che molte donne nel mondo dopo la gravidanza si sentano costrette a dover rinunciare al lavoro per ammortizzare le spese; a tal proposito leggiamo ancora in Invisibili: «Il ventinove per cento (ma quasi il cinquanta per cento nella fascia di reddito medio-basso) delle donne inglesi interrogate ha detto alla McKinsey & Company che “tornare al lavoro dopo la nascita di un figlio non è finanziariamente fattibile”: la percentuale di uomini che hanno dato questa risposta è pari alla metà».

Un bilancio finale

Insomma, la pandemia in Italia ha accentuato problemi che risultavano già ben radicati nel panorama di una società, che come in molte altre parti del mondo, non si è dedicata alla comprensione delle problematiche femminili, che non studia con la medesima attenzione, dedicata ai maschi, i dati che le riguardano e che risente ancora di un’impostazione fortemente patriarcale. Consideriamo il fatto che nel 2020 sia ancora necessario fronteggiare il divario retributivo, una piaga quanto mai ingiusta e che riguarda moltissimi paesi con percentuali diverse, come leggiamo Divario retributivo di genere: le donne guadagnano meno degli uomini nell’UE: «Nell’Unione europea il divario retributivo varia ampiamente: la percentuale più alta si riscontra in Estonia (25,6%). A seguire: Repubblica Ceca (21,1%), Germania (21%), Regno Unito (20,8%), Austria (19,9%) e Slovacchia (19,8%) – dati del 2017. Le percentuali più basse si ritrovano in Slovenia (8%), Polonia (7,2%), Belgio (6%), Italia e Lussemburgo (entrambi 5%) e Romania (3,5%)».

Dunque c’è molto da ripensare per poter far ripartire la società in un’ottica di parità e di decisivo cambiamento di rotta.

Flavia Palieri